30-05-2025
Quando portare un bambino in terapia diventa difficile
una riflessione per genitori e professionisti
Sempre più spesso, nel mio lavoro clinico con i bambini, mi capita di incontrare genitori che chiedono aiuto per difficoltà emotive vissute dai propri figli. Alcuni bambini manifestano crisi di rabbia improvvise, altri sono molto timidi, insicuri, fanno fatica a inserirsi in contesti nuovi, ad adattarsi ai cambiamenti, a esplorare con curiosità il mondo che li circonda. Il primo passo, quello del primo colloquio con i genitori, è spesso ricco di speranza: si riconosce la fatica, si desidera un cambiamento, si definisce insieme un progetto terapeutico. Si stabilisce lavvio di un percorso con il bambino, spesso affiancato da incontri dedicati ai genitori per sostenere la relazione e comprendere meglio ciò che accade nel mondo interno del figlio. Eppure, mi capita con crescente frequenza di notare come, dopo i primi incontri, qualcosa si interrompa. Il bambino inizia la terapia, ma poi non viene più portato. Gli appuntamenti vengono rimandati, saltati, dimenticati. A volte con motivazioni pratiche, altre volte con il silenzio. Il percorso perde continuità, e spesso si interrompe del tutto. Mi sono chiesta cosa accade davvero in queste situazioni. Perché è così difficile restare nel percorso una volta iniziato? Forse cè una parte legata ai ritmi frenetici della vita quotidiana, agli impegni che si moltiplicano, alle agende familiari piene, dove il tempo per stare e non solo per fare diventa un bene raro. Portare un bambino in terapia richiede costanza, organizzazione, disponibilità: può sembrare un impegno in più in una quotidianità già sovraccarica. Ma credo che ci sia anche qualcosa di più profondo. Quando un bambino inizia un percorso terapeutico, spesso si mettono in moto dinamiche che riguardano non solo lui, ma lintero sistema familiare. I bambini, con i loro comportamenti, sono spesso specchi sensibili di tensioni, paure, fatiche che appartengono anche ai genitori, magari inconsapevolmente. E così, quando il bambino comincia a muoversi interiormente, anche qualcosa nei genitori viene smosso. E non sempre è facile tollerare questo movimento. A volte è doloroso vedere un figlio raccontare con un disegno o con un gioco qualcosa che tocca corde profonde. A volte è difficile riconoscere che certi comportamenti non sono solo problemi del bambino, ma parlano anche di relazioni, aspettative, fragilità adulte. Portare un bambino in terapia significa, in un certo senso, essere disposti a guardare anche se stessi. E non tutti i genitori sono pronti a farlo. Non per mancanza di amore, ma perché questo richiede coraggio, tempo, e la capacità di sostare in una zona di vulnerabilità. Con questo articolo voglio dare voce a una complessità che spesso non viene nominata. Interrompere un percorso può essere una difesa, una forma di protezione da ciò che fa troppo male o da ciò che non si riesce a sostenere in quel momento. Ma è anche unoccasione perduta, per il bambino e per lintera famiglia, di aprire uno spazio nuovo di consapevolezza e trasformazione. Forse il primo passo, per noi terapeuti e per i genitori, è proprio riconoscere questa fatica, nominarla, accoglierla. Perché solo ciò che viene visto può essere trasformato. E solo ciò che viene condiviso può trovare un senso e una direzione nuova.